sabato 22 ottobre 2011

Novecentoventisei. Verde speranza

Arrivo in ritardo, affannata. Parcheggio la macchina dietro la rete del campetto e saluto Aurelio che sbuca dal laboratorio. I "terzini" sono già in aula tecnigrafi: bravi bravi, avete già anche sistemato la TV; certo quando si tratta di vedere un film l'efficienza e il tempismo si sprecano. Allora si parte, finiamo di vedere questo benedetto "Tutta la vita davanti" lasciato in sospeso da quindici giorni. Il finale piace anche a me che non lo avevo ancora visto: bella storia e bella descrizione dei personaggi. Intavoliamo un dibattito tanto per condividere le tradizionali impressioni personali: più di tutto mi preme sondare il grado di interesse suscitato da questo film e soprattutto se sono chiari i drammi che vi vengono rappresentati. Mi guardo intorno raccogliendo sguardi, parole, commenti. Poi arriva Joshua. Giudica sciocchi i problemi dei personaggi, o perlomeno critica aspramente la debolezza con cui si sono lasciati travolgere da malesseri di vario genere, fino a strippare di brutto. La conversazione, come in altri episodi, non lascia spazio al confronto. Il giudizio è implacabile, ferreo; in fondo sono anche un po' idioti  questi omuncoli del film-realtà a lasciarsi prendere così dalla vita, perché davvero basterebbe lasciare perdere tutto, partire e traferirsi in una qualche capanna nella foresta, lontani dalle impellenti restrizioni sociali eccetera eccetera. Vorrei proprio darti ragione, caro Joshua; vorrei credere anche io a una soluzione tanto ingenua da sembrare anche leggermente puerile. Ma non ci riesco. Perché nelle storie dei personaggi del film di Paolo Virzì ho ben trovato le storie di tanti uomini e di tante donne; giovani, meno giovani. Perché il malessere che accomuna molti esseri umani è un liquido trasparente che si insinua piano piano, come una formica che scava nella sabbia. Giorno dopo giorno. Non hai modo di accorgertene, e magari stai anche benino, tutto sommato, in una routine a cui ti sei assueffatto dalla mattina alla sera; giorno dopo giorno. Perché quel malessere di cui parlo non fa rumore e non ha odore; non lo senti e non lo annusi, eppure è una lenta marea che attraverso qualche oscuro meadro ti riempie, giorno dopo giorno. E non è questione di essere stupidi o idioti o. E' qualcosa che ha a che fare con la sensibilità, la soggettività di ognuno, che sono sacrosante. Ma tutti questi ragionamenti forse sono indigesti da condividere, soprattutto per chi ritiene di affrontare un problema esiliandosi everywhere purché non qui, nell'accoglienza di sé e degli altri. Allora chiudo, e piego una gru. La mia settantaquattresima. Verde speranza.

Nessun commento:

Posta un commento